C'è una caratteristica specifica che rende i videogiochi così coinvolgenti e unici, rispetto a quello che ci offre qualsiasi altro medium: il fatto di darci un ruolo attivo. In un videogioco l'utente agisce, trova il suo modo per procedere tra tutti quelli possibili, crea con le sue azioni un impatto nel mondo virtuale. È ciò che chiamiamo agency: la possibilità di compiere un'azione, una scelta, che si ripercuote sul suo viaggio all'interno del videogame.
Si tratta di una caratteristica fondamentale, che rappresenta l'anima e la spina dorsale dell'esperienza di gioco: decido io se e quando saltare per superare quell'insidia in Super Mario, decido io dove nascondermi per non farmi vedere dai nemici (o se ucciderli) in Metal Gear Solid, decido io qual è il prossimo luogo da visitare in Kingdom Come, scelgo io come costruire la mia build, come attaccare e come muovermi in Hades, chi è nel mio party attivo e con che abilità in Clair Obscur.
In un certo senso, possiamo dire che tutti i giochi sono fondati sulle scelte dei giocatori. Ce ne sono alcuni, però, che integrano le scelte non solo come spazio di manovra per le interazioni, ma all'interno della componente narrativa. Quest'anno ce ne ha dato la prova, con l'interessante esperimento di The Alters e il grande successo di Dispatch, che ha rispolverato il classico modello delle avventure di Telltale Games.
Sono giochi che funzionano - anche molto bene - e che possono farlo grazie a un delicato, consapevole e soprattutto brillante inganno.
Giocare con la scelta: il grande bivio
A dire la verità, anche tra i giochi che integrano la scelta come mezzo narrativo ci sono filosofie diverse. Prendiamo un esempio come Her Story: qui, il giocatore non va a influenzare direttamente l'esito della vicenda, ma il modo in cui la ricostruirà, collegando i nastri con le varie testimonianze sul caso che sta analizzando, sarà tutto suo. Anche alcuni giochi fondati sul ripetersi ciclico dello stesso giorno, come ad esempio The Forgotten City, hanno le scelte al cuore della loro vicenda: una volta capito come rompere il loop, cosa faremo e sulla vita di quali personaggi riusciremo ad avere un impatto?
Ci sono anche alcuni titoli, dalla forte vocazione narrativa, che limitano le possibili diramazioni a un singolo momento di scelta A/B che ha una ripercussione tangibile, da cui non è possibile scappare. In questo caso il peso della scelta sulle spalle del giocatore è notevole. Di recente, ad esempio, Clair Obscur: Expedition 33 ha proposto una soluzione di questo tipo, mettendo nelle mani degli utenti un bivio fondamentale. O, per andare più indietro senza fare spoiler, si può risalire al classico Metal Gear Solid.
Circa a metà del gioco, si veniva posti di fronte a una decisione chiara: resistere a una sfida mortale, con il rischio che in caso di game over si dovesse ripartire dall'ultimo salvataggio (anche dall'inizio del gioco, se non si era mai salvato fino a lì), o arrendersi e condannare a morte un altro personaggio al posto nostro.
Nel 1998, il gioco gestiva con grande trasparenza e consapevolezza questo bivio: metteva le opzioni sul piatto e teneva fede a quanto minacciava, con un tale rispetto per l'agency del giocatore che perfino il successivo Metal Gear Solid 2 evitò di far sapere quale dei due finali fosse ufficiale nella continuità narrativa (se quello con l'alleato vivo o quello in cui muore per colpa nostra), così da non squalificare la scelta di nessuno. Solo dieci anni dopo, in Metal Gear Solid 4, venne reso noto che l'epilogo canonico era quello in cui Snake resisteva.
Pensiamo anche a Mass Effect: già nel primo capitolo, c'è un preciso momento in cui il comandante Shepard (cioè noi) deve decidere della vita e della morte di due suoi alleati. Si tratta, come in Metal Gear Solid e Clair Obscur, di scelte consapevoli, in cui il gioco espone chiaramente quali saranno le conseguenze che ci chiede di soppesare.
Per un effetto drammatico diverso, gli sceneggiatori possono anche decidere di introdurre delle scelte il cui esito è ignoto a chi gioca: dobbiamo decidere sulla base delle (poche) informazioni che abbiamo e, a volte, della nostra moralità. Sono decisioni che ci rivelano qualcosa di più su noi stessi, che non sul protagonista che stiamo interpretando.
Il recente The Alters, ad esempio, propone alcuni bivi morali dove possiamo solo supporre cosa accadrà in base a cosa decideremo: ha molto senso, essendo un'opera interamente costruita sul concetto di convivere con le conseguenze delle nostre scelte passate, qualsiasi esse siano. La nostra scelta si ripercuoterà su di noi e sui nostri "Alter", le copie di se stesso che il protagonista, Jan Dolski, crea per riuscire a sopravvivere nello spazio - diverse da lui in tutto se non nell'aspetto fisico, proprio perché a un certo punto delle loro vite, nelle realtà parallele immaginate da The Alters, hanno compiuto scelte diverse da quelle dello Jan originale.
Quando discusse di questa impostazione narrativa, il game director Tomasz Kisielewicz spiegò che The Alters era nato dall'idea del paradosso della nave di Teseo: se tutti i pezzi della nave, con gli anni, sono stati sostituiti fino al punto che non ce n'è più nessuno originale, quella è ancora la nave di Teseo? Cosa la identifica ancora come tale, se è rimasta uguale solo nella forma? Lo stesso vale per le persone, e la bilancia qui è in mano al giocatore: tutti gli Jan che ci affiancano sono sempre "me" e condivideranno le mie decisioni morali, contando che sono letteralmente nati dalle scelte differenti compiute nelle loro vite?
La centralità che The Alters dà alle scelte, anche nel loro peso tematico, è uno degli esperimenti più interessanti visti quest'anno. Anche perché il team di 11-bit Studios è riuscito a nascondere molto bene il fatto che le scelte all'interno di ogni videogioco sono comunque guidate. E lo sanno molto bene anche gli autori di Dispatch.
"Invisigal se ne ricorderà"
Considerando che buona parte di AdHoc Studio viene dall'originale Telltale Games, non è una sorpresa che Dispatch abbia ripreso esattamente quel modello videoludico. Ci troviamo così a tu per tu con un'avventura narrativa a episodi, in cui l'interazione del giocatore passa interamente per le scelte: opzioni di dialogo che influenzano i rapporti con gli altri personaggi, o la decisione se intervenire o no quando accade qualcosa di specifico. A questo, il riuscitissimo gioco di AdHoc affianca una parte gestionale, dove dobbiamo inviare i nostri supereroi in giro per la città per rispondere alle emergenze.
Il punto nevralgico è che, in Dispatch più che mai, lo scheletro narrativo del gioco non viene davvero intaccato dalle scelte del giocatore. Se la storia, ipoteticamente, prevede che i buoni vincano contro i cattivi, i buoni vinceranno contro i cattivi qualsiasi cosa facciamo. Ciò che le scelte modificano, nei giochi in stile Telltale, è il come, non il cosa - e ha assolutamente senso che sia così.
A renderlo ancora più evidente è proprio la parte gestionale del gioco: mi sono capitati dei turni in cui ho fatto tanti disastri, banalmente perché avevo frainteso di che tipo di intervento si trattasse e avevo mandato i supereroi sbagliati. Questi errori, però, non comportano conseguenze: la gestione dei personaggi diventa più che altro una parte in cui ci si diverte a sentire i loro dialoghi, a vedere evolvere i loro rapporti e a provare a ottenere buoni punteggi, ma non influenza davvero il destino della città né di nessun altro.
La storia, allora, procede lungo la sua linea, con le azioni del giocatore che possono innestare dettagli e sfumature diverse, ma non alterarne in modo significativo il percorso e l'epilogo: quale personaggio potremmo finire per cacciare dal team, ad esempio, avrà risvolti più avanti, così come la possibile relazione romantica che faremo sviluppare con risposte e azioni. Immaginate tutto Dispatch come un diagramma di flusso con qualche ramificazione qua e là che, dopo qualche sequenza di raccordo basata su ciò che abbiamo scelto di dire o fare, torna al binario che era previsto a prescindere da tutte le opzioni di scelta. Se la cosa vi incuriosisce, trovate qui, tramite GameDeveloper, un albero dell'episodio 1 di The Walking Dead di Telltale.
Questa tipologia di gioco, chiamato "branched" (ramificato) prevede in pratica delle deviazioni, più che delle direzioni - anche se fa parte della maestria del design spacciarle per il contrario. Di solito, in un videogioco possiamo distinguere tra scelte (che arma porto con me? Vado prima di qua o prima di là?) e scelte significative (chi salvo tra due personaggi in pericolo sapendo che l'altro morirà?). I giochi ramificati sono eccezionalmente bravi, quando ben fatti, a sfumare i confini tra le due categorie: anche le prime sembrano le seconde.
Chiaramente, la condizione "quando ben fatti" non è da sottovalutare. Essendo opere dove tutto il peso è sbilanciato sul far sentire l'utente l'ago della bilancia delle decisioni, i titoli ramificati hanno un requisito chiave: devono saper dare l'illusione della scelta.
Il grande valore dell'illusione della scelta
Torniamo a Mass Effect: nel primo gioco, come dicevamo, era possibile prendere una scelta che influenzava il destino di due personaggi. Si salvava l'uno oppure l'altro. Non si tratta di una scelta illusoria, ma di una decisione vera e propria, pesante: quello che avevamo scelto di fare aveva ripercussioni lungo tutta la trilogia. E forse basta questo a far capire perché creare videogiochi ricchi di scelte significative sia estremamente complesso - e costoso.
La stessa BioWare spiegò meglio di chiunque altro le difficoltà innescate dalle scelte reali in un videogioco narrativo: "immaginate di dover scrivere una scena dove un personaggio potenzialmente morto sta parlando con un altro che potrebbe essere a sua volta morto, in merito a un evento che potrebbe o non potrebbe essere accaduto".
Non c'è solo la complicazione nella scrittura e nel design, ma anche quella nel budget: rimanendo nell'esempio dei due personaggi di Mass Effect, decidere chi dei due sarebbe rimasto vivo ha richiesto di scrivere, doppiare e integrare comunque le battute di entrambi per tutta la trilogia - anche se i giocatori, a meno di run successive con scelte opposte, hanno potuto vedere solo metà di quel lavoro, ossia la parte che riguardava il personaggio che avevano salvato. In pratica, il costo di produzione è 100, ma quello che arriva al giocatore-tipo è 50: un modello complicato da portare avanti e giustificare.
Per questo, a parte gli esempi audaci e rischiosi, di solito i videogiochi con scelte significative si rifanno a delle regole auree: non è tanto l'idea di poter scegliere, a sedurre il giocatore, quanto la soddisfazione di vedere il significato scaturito da quella scelta - anche se piccolo, non è quello l'importante. Ciò che è importante è che ci sia. Scegliere di essere gentile con un personaggio, ad esempio, potrebbe portarlo a regalarci un equipaggiamento unico, o a sbloccare una battuta divertente che altrimenti non sarebbe stata in copione.
Di solito, per fare in modo che una scelta non sembri buttata lì e deludente è importante che abbia una ripercussione nell'immediato e una sul finale - almeno quando si tratta di una scelta significativa. Idealmente i designer fanno in modo che un primo impatto ci sia entro trenta minuti da quando la compiamo, mentre il resto viene relegato all'epilogo.
Per tornare all'esempio di scelta A/B di Metal Gear Solid, cedendo al ricatto il giocatore affronta subito dopo una conversazione spiacevole con gli altri personaggi del team e viene "punito" dal fatto che Snake prende un raffreddore e inizia a starnutire - il che rende molto fastidioso nascondersi dai nemici. Si tratta degli effetti "vicini", a trenta minuti dalla scelta. Il resto, invece, si verifica sul finale, dove la morte del nostro alleato si concretizza come il gioco aveva promesso.
In questo modo, anche dal punto di vista della spesa e del doppio lavoro si contengono gli sforzi: la scelta risulta significativa, ma non proibitiva da realizzare o da portare avanti lungo il gioco, poiché mostra degli effetti esattamente dove dovrebbe. La missione di Snake non cambia se resistiamo o ci arrendiamo: cambiano i dettagli.
Vale lo stesso anche per la storia di Robert Robertson e degli altri protagonisti di Dispatch, dove peraltro le scelte sono molte, molte di più: sarebbe stato folle immaginare un gioco che si ramifica per ogni QTE sbagliato, per un turno perfetto o uno disastroso, che taglia e cuce il cast dei supereroi a seconda dei nostri dialoghi - sebbene ci siano, per quanto non centrali, alcuni cambiamenti possibili proprio nel gruppo dei protagonisti.
La bravura è invece in quell'illusione della scelta: se concedersi a una rissa porta a spaccare un dente a un altro personaggio, la gratificazione è nel vedere che gli mancherà proprio quel dente per tutto il gioco. Un dettaglio insignificante, frivolo, ma che certifica la presenza del giocatore, la validità delle nostre azioni: c'è un impatto, sul mondo e sui personaggi, dato da quello che io-giocatore ho deciso di fare.
Il finale non cambia. Chi doveva vincere vince, chi doveva perdere perde. Ma mentre giochi senti, di scelta in scelta, che questa è la tua storia - e Dispatch ci ha costruito con maestria la sua intera spina dorsale. Lo fa ancora meglio The Alters, che pure a sua volta inizia in un punto A e finisce in un punto B abbastanza rigidi: tutto quello che c'è in mezzo, però, è avvertito come unico da ciascun giocatore, invoglia addirittura a una seconda run. Non importa che in realtà ogni singola cosa si muova su binari previsti dagli autori e torni poi al nodo centrale della storia che sarebbe accaduto in ogni caso: è per quello che si chiama illusione e, se è costruita bene, si può sospendere volentieri l'incredulità per farle spazio e godersela.
Non c'è niente di male a farsi ingannare, finché l'inganno della messa in scena regge. In fin dei conti lo sappiamo che l'illusionista non ci sta davvero leggendo la mente, quando indovina che carta abbiamo in mano: è solo molto, molto bravo a farci credere che sia così. Ci diverte e lo applaudiamo, perché ci sentiamo coinvolti in qualcosa di bello. E anche con i videogiochi è così.