Qualcuno che conosciamo ormai da 20 anni può essere considerato un vecchio amico? Be', molto probabilmente sì. Se è così, Kazuma Kiryu rientra di diritto in questa categoria. Eppure dobbiamo ricordare che non è stata amicizia a prima vista quella tra il Drago di Dojima e il pubblico, perlomeno quello occidentale. Esatto, perché se in patria il buon Kiryu ha da subito riscosso consensi, anche sul fronte commerciale, alle nostre latitudini non è andata proprio alla stessa maniera. O almeno, non immediatamente.
Vent'anni fa, l'8 dicembre 2005, il primo, leggendario Yakuza usciva in Giappone ponendosi come big bang di una delle saghe più prolifiche e longeve del medium videogioco, ma anche come un titolo che sarebbe stato poi accolto con inaspettata freddezza nel resto del globo.
In occasione di questo anniversario, cerchiamo dunque di analizzare i motivi che all'epoca della sua uscita originale lo avrebbero reso un prodotto poco appetibile dalle nostre parti e che hanno contribuito a bollarlo come un mezzo flop. Flop che tuttavia, col senno di poi, ha dimostrato di avere ragione da vendere.
Il momento sbagliato
Quando Yakuza vide la luce su PlayStation 2 nel 2005, nessuno immaginava che il suo futuro potesse essere radioso come poi si è dimostrato; sicuramente non lo immaginava SEGA, che pure aveva sostenuto il titolo con un budget insolitamente alto per un nuovo progetto, e ancor meno il pubblico occidentale, che lo accolse con un interesse che definire scarso sarebbe esagerare.
Oggi, a due decenni di distanza, il marchio Yakuza/Like a Dragon è invece un colosso globale: vende milioni di copie, produce spin-off, ha una devota schiera di fan e soprattutto un'identità riconoscibilissima. Ma nel 2005? Be', quello sviluppato dal Ryu Ga Gotoku Studio era più che altro un titolo sospeso, difficile da spiegare e da inquadrare, probabilmente arrivato nel momento sbagliato. Ora, mettiamo subito le cose in chiaro: il problema alla base del primo Yakuza non fu mai la qualità. Fu il marketing. Già, perché la prima avventura di Kazuma, in realtà, non assomigliava a niente di quello che si vendeva bene nel 2005.
Ok, proviamo a immaginare un pubblicitario dell'epoca: costui si ritrova tra le mani un action con una componente narrativa di primissimo piano, con elementi da picchiaduro a scorrimento, lunghissimi filmati drammatici, minigiochi deliranti, un'ambientazione giapponesissima e un protagonista serio e quadrato come un samurai. Quale etichetta avrebbe potuto usare per promuovere il gioco? "GTA giapponese"? Troppo riduttivo. "Gioco d'azione cinematografico"? Troppo generico. "Simulatore di vita notturna"? Troppo rischioso. Con tutta probabilità, insomma, niente di tutto questo avrebbe funzionato né reso giustizia all'esperienza confezionata da SEGA.
A conti fatti, dunque, la verità è che, al suo approdo sul mercato, Yakuza non apparteneva a nessun genere codificato. O, meglio, apparteneva a troppi: dramma criminale, avventura narrativa, brawler arcade, esperienza urbana a esplorazione limitata. E così, in un mercato che privilegiava chiarezza e immediatezza - basti pensare alla semplicità comunicativa dei vari Halo, GTA e God of War - Yakuza era un'autentica sfida di linguaggio. E, si sa, il pubblico raramente premia ciò che non riesce a comprendere subito.
Il contesto sbagliato
A parziale discolpa del marketing, bisogna tuttavia ammettere che il 2005 videoludico si rivelò un anno alquanto strano: da un lato la PS2 era ancora la regina incontrastata del mercato; dall'altro, l'arrivo di Xbox 360 apriva l'era dell'HD.
Il mondo del gaming sembrava quindi iniziare a orientarsi verso due poli ben distinti: un Occidente sempre più dominante, con sparatutto e open world in espansione, e un Giappone immerso in una sorta di crisi creativa, sospeso tra tradizione e necessità di modernizzarsi. Ebbene, in questo contesto, Yakuza soffrì soprattutto una certa disaffezione crescente del pubblico occidentale verso i videogiochi profondamente giapponesi, percepiti quasi come "di nicchia", "strani" o addirittura "lenti".
L'action occidentale puntava infatti sull'immediatezza, sulla potenza e sulla totale libertà, mentre l'odissea di Kiryu andava fieramente in direzione ostinata e contraria, mettendo sul piatto stretti corridoi urbani, dialoghi fiume e un tono melodrammatico a tratti simile ai j-drama. Un prodotto, dunque, orgogliosamente locale, che pretendeva però di farsi spazio in un mercato globale che tuttavia pareva correre a una velocità completamente diversa.
Il doppiaggio inglese
Un dettaglio spesso citato - sebbene raramente analizzato per il peso che ebbe nell'insuccesso commerciale dell'opera qui da noi - è il doppiaggio inglese.
Sia chiaro, i presupposti per rendere il titolo un prodotto esportabile e apprezzabile anche in occidente c'erano tutti: SEGA infatti si impegnò investendo molto in questa ambiziosa operazione che mirava a rendere il gioco accessibile anche al di fuori del Giappone; senza contare che in Italia Yakuza arrivò addirittura sottotitolato nella nostra lingua e rimase a lungo l'unico capitolo dell'ecosistema Ryu Ga Gotoku (contando quindi anche gli spin-off) a potersi fregiare di questa caratteristica.
Eppure, niente di tutto questo funzionò. Beninteso, non per colpa degli attori (il cast annoverava tra le sue fila nomi del calibro di Michael Madsen e Mark Hamill, tanto per citarne un paio), ma perché il doppiaggio finì in qualche modo per snaturare l'identità del progetto.
Yakuza viveva infatti di sfumature culturali, di silenzi e di tensioni linguistiche che appartengono all'universo criminale giapponese, e tradurle a forza in un inglese marcato e aggressivo ebbe come risultato quello di generare un contrasto che sfiorò quasi il comico. E fu così che il gioco finì vittima di una mediazione culturale che di fatto non soddisfò nessuno: il pubblico giapponese, infatti, percepì l'occidentalizzazione come superflua, mentre quello occidentale non riuscì ad avvertire il titolo come "familiare" o comunque assimilabile alle esperienze action di produzione statunitense.
Un eroe difficile da decifrare
Se però vogliamo essere onesti fino in fondo e dirla davvero tutta, anche Kazuma Kiryu ci mise del suo in questo buco nell'acqua. Certo, è facile parlare oggi di fronte a un personaggio ormai divenuto una delle icone del medium, ma chi c'era nel 2005 ricorderà come non fosse così facile amarlo al primo contatto.
Dunque, facciamo il punto. Nel corso dell'avventura, Kiryu non parlava quasi mai, ostentava una rigidità quasi teatrale e come se non bastasse incarnava un'idea di mascolinità stoica e trattenuta lontana anni luce dagli eroi d'azione occidentali.
Probabilmente, in quel preciso periodo storico, quelle che cercava il pubblico erano figure con chiari archi emotivi e quindi protagoniste di un'evoluzione visibile e, da questo punto di vista, Kiryu se ne stava invece immobile al centro del caos. Fattore, questo, che richiedeva al giocatore un tipo di empatia meno immediata, più culturale che cinematografica, insomma.
È dunque facile immaginare come, all'epoca, da questa parte del globo terrestre in molti finirono per considerare "piatto" l'eroe assemblato da SEGA, ma in realtà si trattava solo di un personaggio costruito su un codice espressivo completamente diverso.
Il paradosso dell'identità
Se fossimo costretti a indicare un tratto distintivo del primo Yakuza, di primo acchito forse parecchi di noi indicherebbero la sua identità complessa e cangiante, quella capacità di alternare dramma serissimo e comicità slapstick senza tuttavia mai perdere la coerenza interna.
A ben pensarci, però, nel 2005, un'oscillazione simile poteva essere percepita più come una debolezza che come un punto a favore: non era infatti semplice capire a cosa il gioco mirasse; voleva essere un crime drama adulto? Oppure un parco giochi urbano dai tratti talvolta assurdi e surreali?
Be', probabilmente oggi entrambe le risposte appaiono come esatte, ponendosi come ingredienti di una dualità considerata geniale; ciononostante, due decenni fa questo mix era semplicemente visto come strano. E se è vero che all'inizio Yakuza faticò decisamente a ingranare fuori dai confini nipponici, la rinascita del marchio non fu né programmata né il frutto di una rinnovata e azzeccata strategia commerciale, bensì il risultato di una lenta e costante opera di culto.
Pian piano la complessità narrativa della saga (che proseguì nonostante tutto) e la sua identità forte conquistarono quel pubblico che sulle prime l'aveva ignorata, con il brand che andò incontro a una sorprendente riscoperta da parte dei giocatori occidentali e che ne decretò il meritato successo di cui gode ancora oggi.
Un fallimento che insegna
Tirando le somme, a vent'anni di distanza dall'accaduto, la storia del primo Yakuza è però, a suo modo, anche una lezione sul mercato videoludico; una lezione che sembra dirci che l'industria (e il pubblico) non sempre è in grado di riconoscere il valore immediatamente, specie quando quel valore non rientra nelle categorie dominanti di una determinata epoca.
"Il caso Yakuza", tuttavia, lancia anche un altro messaggio, e cioè che l'identità culturale può essere un asso nella manica, a patto che il pubblico abbia il tempo di abituarsi, ma anche un ostacolo quando si tenta di venderla in un mercato che privilegia la familiarità. Il percorso travagliato della prima avventura di Kazuma Kiryu, però, è anche il simbolo di come alcuni giochi abbiano bisogno di tempo per maturare insieme al mercato stesso: nel 2005, Yakuza era infatti troppo specifico, troppo giapponese, troppo narrativo, troppo tutto.
E così, vent'anni dopo, in un panorama in cui la diversità autoriale è invece celebrata e il pubblico sembra più aperto a prodotti ibridi, la serie targata Ryu Ga Gotoku Studio è finalmente immersa e libera di sguazzare nel proprio habitat naturale. Senza quel "flop" iniziale fuori dal paese del Sol Levante la serie sarebbe stata ciò che è oggi? Be', questo non possiamo saperlo; quel che è certo, però, è che quel fallimento la preservò, obbligandola a rimanere fedele a sé stessa, senza quindi tentare di uniformarsi ai trend occidentali.